Un vecchio detto recita "il lupo perde il pelo ma non il vizio" ed a quanto pare così è stato anche per gli esseri umani che durante l'evoluzione hanno perso il pelo ma non la loro inclinazione alla violenza: l'uomo infatti resta tuttora una delle specie più violente del pianeta, né più né meno di quanto era alle sue origini come specie, tra 160.000 e 200.000 anni fa. O almeno questo è quanto ha fatto sapere un recente studio pubblicato sulla rivista Nature, (sicuramente controverso ed incompleto per alcuni aspetti ma destinato a non passare inosservato per i suoi contenuti che sembrano dare ragione a Thomas Hobbes), e condotto da un gruppo di biologi dell'Università di Granada, il quale ha cercato di rispondere alla domanda: "da dove viene la violenza umana?". In pratica, secondo José Maria Gomez, biologo evoluzionista nonché principale autore della ricerca in questione, la tecnica migliore per trovare una risposta è stata tracciare una sorta di albero genealogico dei mammiferi con accanto la loro propensione ad uccidere i membri della stessa specie. Così facendo i ricercatori hanno scoperto che uomini e primati non solo "siedono" sullo stesso ramo dell'albero evolutivo, ma sono anche fra i più spietati killer della natura, con 2 morti su 100 attribuibili all'attacco di un proprio simile. In sostanza questa sembrerebbe un'allusione al fatto che intelligenza e violenza sono legate fra loro, se non fosse per il fatto che in cima alla classifica, (con quasi 20 "assassini" ogni 100 decessi), non ci fossero una specie di mangusta e due di cercopiteco; seguiti da lupi, altre scimmie e varie specie di grandi felini. In generale, gli animali che vivono in gruppo ed hanno un territorio da difendere sembrano essere più propensi a scontrarsi con i propri simili. Ad ogni modo in circa 6 specie di mammiferi su 10, (i ricercatori spagnoli ne hanno studiate 1.024, nell'arco di 2 anni, censendo 4 milioni di casi di "assassinio"), la pace sembra regnare indisturbata. Inoltre il tasso medio di "omicidi" fra tutti i mammiferi è risultato essere di uno ogni 300 decessi: solo un sesto rispetto agli esseri umani. Per dirla in altre parole il fenomeno è ben lontano dal riguardare soltanto gli uomini: delle specie analizzate, circa il 40% è risultato coinvolto in "assassinii tra conspecifici"; anche se naturalmente con tassi che variano ampiamente. Tra l'altro l'aspetto più interessante, sempre secondo i ricercatori spagnoli, sta nel fatto che sia la violenza che la non violenza tendono a raggrupparsi lungo i medesimi rami dell'albero di famiglia dei mammiferi: più violente sono le specie con cui si è imparentati filogeneticamente, più probabilità ci sono di essere una specie violenta. Quindi, considerando che, come noto, i parenti più prossimi dell'uomo sono i primati, (tra i quali si registrano tassi di violenza interspecifica variabili: si va dagli scimpanzé comuni, con quasi il 4,5% delle morti causata da uno altro scimpanzé, ai ben più pacifici Bonobo, responsabili di appena lo 0,68% delle morti dei propri conspecifici), i ricercatori, servendosi di comparazione e modelli matematici, ha dedotto che la percentuale di uomini uccisi da altri uomini dovrebbe attestarsi sul 2%. Ma non è tutto, lavorando ancora una volta sulla letteratura scientifica che documenta la violenza letale tra gli esseri umani a partire dalla preistoria per giungere fino ai giorni nostri, in oltre 600 distinte popolazioni terrestri, e servendosi di statistiche moderne, etnografie, dati storici e scavi archeologici, è emerso che quel 2% coincide con quello osservabile sulla base dell'evidenza archeologica nei gruppi di cacciatori-raccoglitori preistorici, vissuti tra 50.000 e 10.000 anni fa. Il che, sempre secondo i ricercatori, significa che un certo livello di violenza letale è determinato dalla posizione della specie umana all'interno della filogenesi dei mammiferi: quindi, come già anticipato, l'uomo è violento esattamente quanto predice la sua storia evolutiva di mammifero. Tuttavia attribuire la natura violenta degli esseri umani alla parentela con gli scimpanzé non è stato certo un risultato soddisfacente per i ricercatori spagnoli, i quali, scavando più a fondo nella anima oscura degli uomini, hanno cercato di individuare quale ruolo giocano storia, politica e cultura nell'accentuare o moderare gli istinti violenti. Difatti da ciò è emerso che a partire da questo 2% i tassi di violenza sono molto mutati nel corso della storia dell'umanità, in corrispondenza di cambiamenti estremamente profondi che hanno segnato le popolazioni: in età preistorica le morti violente erano, appunto, il 2% del totale, (con le tracce più antiche di una guerra fra uomini risalenti a 10.000 anni fa, scoperte nel 2012 tramite il ritrovamento di resti dei 21 adulti e 6 bambini massacrati in una battaglia fra tribù di cacciatori-raccoglitori). Per di più la situazione non è migliorata nei secoli successivi, con un picco negativo nel medioevo, quando si raggiunse il cupo record del 25% di morti violente, (il 12% in Eurasia). Tuttavia da quel momento in poi la situazione è tornata a migliorare arrivando al di sotto di quella percentuale che, secondo lo stesso José Maria Gómez, sarebbe "naturale", all'1,3% dell'età contemporanea, grazie al ruolo del diritto esercitato dai vari Stati. Difatti al giorno d'oggi l'uomo sembra aver recuperato "l'innocenza" dell'uomo primitivo, e gli stati stabili con una polizia efficiente arrivano anche allo 0,8-1%; segno che la cultura, a volte, può avere la meglio sui nostri istinti da primitivi. Motivo per il quale, anche se si volesse accettare che nella specie umana c'è un'innata tendenza statistica alla violenza letale, bisogna, infine, ammettere che la cultura può modulare, incrementare, ridurre o addirittura arrestare la sete di sangue degli uomini.
Di seguito il suddetto albero genealogico:
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