A quanto pare fu la febbre tifoide scatenata da un ceppo letale di Salmonella, a sterminare le popolazioni indigene di Messico e Guatemala, (in altre parole gli Aztechi), dopo l'arrivo dei Conquistadores europei nel XVI secolo. O almeno questo è quanto ha dimostrato uno studio condotto da alcuni ricercatori del Max Planck Institute for the Science of Human History, in collaborazione con l'Università di Harvard e l'Instituto Nacional de Antropología e Historia e pubblicato in questi giorni sulla rivista Nature Ecology and Evolution, il quale ha analizzato le tracce di DNA del microrganismo rinvenute nei resti di alcune vittime dell'epidemie che colpirono l'America centrale tra il 1520 ed il 1813 e chiamate "cocoliztli", in lingua azteca. Entrando un po' più nel dettaglio i ricercatori tedeschi hanno esaminato i resti di 29 Aztechi morti durante uno dei picchi dal morbo letale tra il 1545 ed il 1550 e sepolti nel cimitero di Teposcolula-Yucundaa, città messicana abbandonata dopo l'epidemia. Ad ogni modo dopo aver estratto il DNA dalle ossa, gli esperti hanno usato un innovativo programma che permette di cercare ad ampio spettro ogni genere di DNA batterico ed hanno rilevato, appunto, tracce di Salmonella enterica in 10 campioni. Successivamente, grazie ad un metodo di arricchimento del DNA appositamente ideato per questo studio, gli scienziati sono stati in grado di ricostruire integralmente i genomi dei vari ceppi del microrganismo: così facendo in 10 dei 29 defunti sono state trovate sottospecie di Salmonella enterica responsabili proprio della febbre tifoide. Al riguardo la ricercatrice Kirsten Bos, tra i principali autori dello studio in questione, (che tra l'altro, lo scorso Febbraio era già comparso su bioRxiv, vale a dire l'archivio digitale che raccoglie le bozze degli articoli scientifici su temi biologici non ancora revisionate dalle grandi riviste internazionali), ha, infine, spiegato: "Questo è un passo in avanti molto importante per la ricerca sulle malattie dell'antichità. Ora possiamo cercare tracce molecolari di vari agenti infettivi nei resti archeologici, cosa fondamentale quando la causa della malattia non è nota a priori".
A quanto pare fu la febbre tifoide scatenata da un ceppo letale di Salmonella, a sterminare le popolazioni indigene di Messico e Guatemala, (in altre parole gli Aztechi), dopo l'arrivo dei Conquistadores europei nel XVI secolo. O almeno questo è quanto ha dimostrato uno studio condotto da alcuni ricercatori del Max Planck Institute for the Science of Human History, in collaborazione con l'Università di Harvard e l'Instituto Nacional de Antropología e Historia e pubblicato in questi giorni sulla rivista Nature Ecology and Evolution, il quale ha analizzato le tracce di DNA del microrganismo rinvenute nei resti di alcune vittime dell'epidemie che colpirono l'America centrale tra il 1520 ed il 1813 e chiamate "cocoliztli", in lingua azteca. Entrando un po' più nel dettaglio i ricercatori tedeschi hanno esaminato i resti di 29 Aztechi morti durante uno dei picchi dal morbo letale tra il 1545 ed il 1550 e sepolti nel cimitero di Teposcolula-Yucundaa, città messicana abbandonata dopo l'epidemia. Ad ogni modo dopo aver estratto il DNA dalle ossa, gli esperti hanno usato un innovativo programma che permette di cercare ad ampio spettro ogni genere di DNA batterico ed hanno rilevato, appunto, tracce di Salmonella enterica in 10 campioni. Successivamente, grazie ad un metodo di arricchimento del DNA appositamente ideato per questo studio, gli scienziati sono stati in grado di ricostruire integralmente i genomi dei vari ceppi del microrganismo: così facendo in 10 dei 29 defunti sono state trovate sottospecie di Salmonella enterica responsabili proprio della febbre tifoide. Al riguardo la ricercatrice Kirsten Bos, tra i principali autori dello studio in questione, (che tra l'altro, lo scorso Febbraio era già comparso su bioRxiv, vale a dire l'archivio digitale che raccoglie le bozze degli articoli scientifici su temi biologici non ancora revisionate dalle grandi riviste internazionali), ha, infine, spiegato: "Questo è un passo in avanti molto importante per la ricerca sulle malattie dell'antichità. Ora possiamo cercare tracce molecolari di vari agenti infettivi nei resti archeologici, cosa fondamentale quando la causa della malattia non è nota a priori".
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