A quanto pare sentirsi disperatamente soli o riuscire ad essere socievoli potrebbe essere anche una questione di genetica; o almeno questo è quanto hanno dimostrato di recente alcuni ricercatori dell'Università di Cambridge, guidati da John Perry, tramite uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, il quale ha messo in evidenza l'esistenza di 15 varianti genetiche legate a questi tratti del carattere. In pratica per arrivare a tali risultati gli scienziati hanno analizzato i dati di circa 500.000 volontari, (per essere precisi 487.647), residenti nel Regno Unito e coinvolti nel programma UK Biobank, ed hanno scoperto che esiste anche un possibile fattore biologico alla base di quella solitudine patologica che impedisce ad alcune persone di riuscire ad entrare in contatto con chi le circonda, pur desiderandolo. In sostanza, come già anticipato, gli studiosi hanno identificato 15 varianti genetiche differenti associate all'isolamento sociale, ed un totale di 27 varianti genetiche in chi è più socievole: 6 in chi preferiva frequentare le palestre; 13 in coloro che erano soliti frequentare pub o club; e 18 in chi faceva parte di gruppi religiosi. Inoltre, anche se il codice genetico identificato nello studio non garantisce o esclude completamente la solitudine, i ricercatori inglesi hanno puntualizzato che circa il 4-5% della tendenza a sentirsi soli potrebbe essere ereditato. Ad ogni modo gli scienziati hanno anche riscontrato alcune sovrapposizioni genetiche con tratti identificati in studi precedenti, (in particolar modo depressione, obesità e scarsa salute cardiovascolare), ed hanno indicato la possibilità che questi tratti si combinano per aumentare il rischio di solitudine in una determinata persona. In altre parole, due persone in situazioni molto simili potrebbero sentirsi in modo diverso rispetto alla loro solitudine o meno e lo studio in questione suggerisce che ciò potrebbe essere dovuto parzialmente alla codifica genetica con cui sono nati. Tuttavia, anche se gli studiosi hanno sottolineato che è probabile che siano coinvolti molti fattori genetici e non, e quindi non è possibile affermare in modo assoluto che esiste un "gene della solitudine" o che i propri sentimenti dipendono totalmente dai geni, questi indizi coincidono con la realtà dei fatti: alcune persone sono perfettamente contente di vivere vite solitarie, mentre altre possono percepire questa condizione come una sorta di tortura. Ma non è tutto, in quanto, come già accennato, i ricercatori britannici hanno anche trovato prove di una possibile associazione tra obesità e solitudine, suggerendo l'una potrebbe guidare l'altra e che di conseguenza gli stessi geni potrebbero aumentare la probabilità che qualcuno sia sovrappeso ed allo stesso tempo si senta solo; motivo per il quale affrontarli insieme potrebbe essere un approccio migliore. Al riguardo lo stesso John Perry ha spiegato: "Spesso pensiamo che la solitudine sia scatenata esclusivamente dall'ambiente circostante e dalle esperienze di vita, ma questo studio dimostra che anche i geni possono avere un ruolo. Esiste sempre un complesso mix di geni ed ambiente, ma i dati emersi suggeriscono che se potessimo affrontare l'obesità a livello di popolazione, potremmo essere anche in grado di abbattere anche la solitudine". Mentre gli altri autori della ricerca hanno affermato: "I nostri risultati evidenziano le specifiche basi genetiche per l'isolamento sociale e l'interazione sociale. Abbiamo trovato prove per effetti genetici condivisi tra i tratti sociali, oltre a percorsi più specifici che guidano l'impegno in particolari attività". Comunque sia a tal proposito Maurizio Pompili, professore di psichiatria presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", (che però non ha preso parte allo studio in questione), ha, infine, commentato: "Questo significa che non tutte le persone malate di depressione hanno questi geni, e che è anche per questo che gli stessi farmaci non funzionano su tutti i pazienti. C'è un peso genetico su cui le terapie standard non funzionano. In altre parole non si può risolvere tutto con la terapia farmacologica o psicologica se ci sono queste basi genetiche. Tuttavia se ne possono gestire le conseguenze, aiutando queste persone, ad esempio, a migliorare la loro capacità di risolvere i problemi a livello sociale e ridurre le difficoltà tipiche di chi ha queste difficoltà di socializzazione. I risultati di questo studio ci indirizzano sempre di più verso una psichiatria di precisione, con terapie individualizzate".
A quanto pare sentirsi disperatamente soli o riuscire ad essere socievoli potrebbe essere anche una questione di genetica; o almeno questo è quanto hanno dimostrato di recente alcuni ricercatori dell'Università di Cambridge, guidati da John Perry, tramite uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, il quale ha messo in evidenza l'esistenza di 15 varianti genetiche legate a questi tratti del carattere. In pratica per arrivare a tali risultati gli scienziati hanno analizzato i dati di circa 500.000 volontari, (per essere precisi 487.647), residenti nel Regno Unito e coinvolti nel programma UK Biobank, ed hanno scoperto che esiste anche un possibile fattore biologico alla base di quella solitudine patologica che impedisce ad alcune persone di riuscire ad entrare in contatto con chi le circonda, pur desiderandolo. In sostanza, come già anticipato, gli studiosi hanno identificato 15 varianti genetiche differenti associate all'isolamento sociale, ed un totale di 27 varianti genetiche in chi è più socievole: 6 in chi preferiva frequentare le palestre; 13 in coloro che erano soliti frequentare pub o club; e 18 in chi faceva parte di gruppi religiosi. Inoltre, anche se il codice genetico identificato nello studio non garantisce o esclude completamente la solitudine, i ricercatori inglesi hanno puntualizzato che circa il 4-5% della tendenza a sentirsi soli potrebbe essere ereditato. Ad ogni modo gli scienziati hanno anche riscontrato alcune sovrapposizioni genetiche con tratti identificati in studi precedenti, (in particolar modo depressione, obesità e scarsa salute cardiovascolare), ed hanno indicato la possibilità che questi tratti si combinano per aumentare il rischio di solitudine in una determinata persona. In altre parole, due persone in situazioni molto simili potrebbero sentirsi in modo diverso rispetto alla loro solitudine o meno e lo studio in questione suggerisce che ciò potrebbe essere dovuto parzialmente alla codifica genetica con cui sono nati. Tuttavia, anche se gli studiosi hanno sottolineato che è probabile che siano coinvolti molti fattori genetici e non, e quindi non è possibile affermare in modo assoluto che esiste un "gene della solitudine" o che i propri sentimenti dipendono totalmente dai geni, questi indizi coincidono con la realtà dei fatti: alcune persone sono perfettamente contente di vivere vite solitarie, mentre altre possono percepire questa condizione come una sorta di tortura. Ma non è tutto, in quanto, come già accennato, i ricercatori britannici hanno anche trovato prove di una possibile associazione tra obesità e solitudine, suggerendo l'una potrebbe guidare l'altra e che di conseguenza gli stessi geni potrebbero aumentare la probabilità che qualcuno sia sovrappeso ed allo stesso tempo si senta solo; motivo per il quale affrontarli insieme potrebbe essere un approccio migliore. Al riguardo lo stesso John Perry ha spiegato: "Spesso pensiamo che la solitudine sia scatenata esclusivamente dall'ambiente circostante e dalle esperienze di vita, ma questo studio dimostra che anche i geni possono avere un ruolo. Esiste sempre un complesso mix di geni ed ambiente, ma i dati emersi suggeriscono che se potessimo affrontare l'obesità a livello di popolazione, potremmo essere anche in grado di abbattere anche la solitudine". Mentre gli altri autori della ricerca hanno affermato: "I nostri risultati evidenziano le specifiche basi genetiche per l'isolamento sociale e l'interazione sociale. Abbiamo trovato prove per effetti genetici condivisi tra i tratti sociali, oltre a percorsi più specifici che guidano l'impegno in particolari attività". Comunque sia a tal proposito Maurizio Pompili, professore di psichiatria presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", (che però non ha preso parte allo studio in questione), ha, infine, commentato: "Questo significa che non tutte le persone malate di depressione hanno questi geni, e che è anche per questo che gli stessi farmaci non funzionano su tutti i pazienti. C'è un peso genetico su cui le terapie standard non funzionano. In altre parole non si può risolvere tutto con la terapia farmacologica o psicologica se ci sono queste basi genetiche. Tuttavia se ne possono gestire le conseguenze, aiutando queste persone, ad esempio, a migliorare la loro capacità di risolvere i problemi a livello sociale e ridurre le difficoltà tipiche di chi ha queste difficoltà di socializzazione. I risultati di questo studio ci indirizzano sempre di più verso una psichiatria di precisione, con terapie individualizzate".
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